La Scala: Chailly, avventura senza convenzioni

IL MESSAGGERO 11 Settembre 2017 

L’ INTERVISTA BERLINO Riccardo Chailly è in tournée con la Filarmonica della Scala in Europa e dopo tappe a Lucerna, Londra, Edimburgo fa scalo a Berlino e poi a Bucarest, Friburgo e Lugano. Il 20 sarà all’ Arcimboldi a Milano e il 21 al Regio di Torino per il Festival MITO SettembreMusica. Chailly ha avuto lunghe frequentazioni con grandi orchestre all’ estero: Concertgebouw (1988-2004) e il Gewandhaus (2005-2015). A Berlino dirige il Concerto per violino di Brahms (solista Leonidas Kavakos) e Verdi (Ouverture dai Vespri siciliani, Stabat mater e Te Deum dai Quattro pezzi sacri). In tournée ha diretto anche Pini e Fontane di Roma di Respighi, la Dodicesima sinfonia di Sciostakovic, il concerto per viola di Bartok, la Rapsodia n. 2 di Enescu. Il programma della tournée combina repertorio sinfonico tedesco e italiano, potrebbe illustralo? «È nato con l’ intenzione che sto portando avanti con la Filarmonica di unire le esperienze del grande repertorio sinfonico con quello italiano: un capolavoro come il concerto per violino di Brahms e lo Stabat Mater e il Te Deum di Verdi, una opportunità di incontro, due diverse lenti interpretative». Da due anni è alla guida della Filarmonica (e della Scala), si profila già una nuova identità? «Il percorso delineato è quello avviato dei grandi classici che porterò avanti assieme al repertorio più moderno che si allinea sul 900 storico: ad esempio Fontane, Pini di Roma, cavallo battaglia, pagine sinfoniche importanti e difficili di Respighi compositore dal quale in tempi recenti ci siamo un po’ allontanati. Con la Filarmonica in progetto con Decca l’ anno prossimo tutto Respighi ma un Respighi meno noto, spirituale, introverso, profondo». Prima della Filarmonica ha diretto tante grandi compagini straniere: quali sono le differenze? «La differenza sta nella volontà degli scaligeri di avventurarsi in grandi progetti: da un lato il grande repertorio Bruckner, Beehtoven ecc. dall’ altro la novità di quel che non si conosce. Un aspetto che si avvicina anche al mio carattere: la ricerca del programma che si stacca dal convenzionale». Da due anni è alla guida della Scala e si inserisce nel solco di grandi direttori, Verdi, Toscanini, Abbado, Muti: cosa significa salire su quel podio? «La Scala è il Teatro dove sono entrato da bambino e che seguo da una vita. Sono consapevole della sua tradizione che mi guida per andare avanti assieme a nuove proposte musicali. L’ idea è proporre il repertorio italiano con un’ attenzione retrospettiva anche al grande teatro spesso dimenticato, come ad esempio ho fatto riproponendo La Gazza ladra di Rossini che non si eseguiva da 170 anni». Il 7 dicembre apre alla Scala con l’ Andrea Chénier e un grande cast (Anna Netrebko, Yusif Eyvazov, Luca Salsi, regia di Mario Martone): può parlarci del progetto? «Andrea Chénier, che mancava da 30 anni alla Scala quando lo portai proprio io, ero molto più giovane. Oggi la ripenso con un regista, Martone, consanguineo alla musica di Giordano, legato a quel periodo storico, la rivoluzione francese». Il suono delle orchestre è sempre più affinato e il rischio è che si somiglino tutte: quale è la cifra distintiva delle grandi orchestre? «L’ omologazione forse vale per il campo discografico altrimenti c’ è un’ identità del suono. Da che ne ho preso la responsabilità, la Filarmonica ha acquisito una personalità del suono molto evidente, riconoscibile: un fatto collettivo, la tinta scura archi, la patina particolare degli ottoni». Con la Filarmonica e la Scala spazia fra sinfonico e opera: preferenze nei generi? «Dirigo quello che è frutto di una mia ricerca anche se ho accumulato molto repertorio. Amo approfondire i cosiddetti minori, definizione storica ingiusta, il mio è un percorso di ricerca. Esiste una affinità elettiva, la frequentazione quotidiana, una affinità epidermica, di conoscenza del linguaggio. Io ho sempre sentito una affinità con Stravinsky sin da ragazzo». Che ne pensa del Regietheater, tanto in voga ma anche alquanto controverso? «È un percorso parallelo, difficile trovare un’ intesa fra interpretazione musicale e scenica, una dicotomia complicata che a volte non trova soluzione e identità. L’ unico modo è spiegare la propria idea artistica. Per Don Pasquale (secondo titolo dopo Andrea Chenier) incontro Davide Livermore». Quale è il suo progetto artistico con la Scala? «Confrontarsi col grande repertorio senza tralasciare il nuovo. Su 15 titoli l’ anno, 50% sono italiani, 50% stranieri, più uno l’ anno di musica nuova. Non restare incatenati solo al passato, non bandire la nuova musica, importante momento di riflessione. La Scala deve essere aperta al moderno». Flaminia Bussotti © RIPRODUZIONE RISERVATA.

Vedi Articolo Il Messaggero 11.9.2017

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